Nel lontano 1989 tutti i regimi comunisti dell’Europa
orientale crollarono tra l’agosto ed il dicembre come castelli di carta per un
minimo soffio di brezza. L’unico tra quei regimi che resisteva era l’Unione
Sovietica, tuttavia agonizzante fin da quando Gorbaciov, ponendo in atto la Perestrojka, ne aveva diagnosticato ma
non decretato (come qualcuno potrebbe essere indotto a pensare essendo stato Lui
medesimo a causarla) la morte.
Il regime comunista sovietico si dissolverà di fatto nel
1991, sopravvivendo meno di due anni all’ultimo regime dell’Europa orientale, ovvero
quello rumeno. Tutti sapevamo dei conflitti interni che vi sussistevano, del
malessere che vi serpeggiava, della crisi interna che li minava, della grande
voglia di cambiamento che animava le loro popolazioni, ma nessuno si aspettava
un loro crollo così rapido giacché, pur intravedendosi alcune incrinature, non
risultava trasparente il logorio dei puntelli che li sostenevano.
Per quanto ci riguarda, è logico affermare che la loro
caduta così rapida ci provocò un sommo sconcerto, non tanto perché ne ignorassimo
i grossi difetti e le possibili cause che ne avrebbero determinato la rovina,
ma perché avevamo riposto in essi una specie di contrappeso ai mali che
allignavano, e che tuttora allignano, nelle democrazie occidentali.
Questi regimi, infatti, erano una forza che garantivano i
Paesi del Terzo mondo dall’invadenza poco scrupolosa dei loro ex colonizzatori
occidentali. In realtà sapevamo benissimo che l’Unione Sovietica ed i suoi
satelliti operavano nei Paesi sottosviluppati per assicurarsi un’influenza in
contrapposizione ai Paesi industrializzati dell’Occidente, e che i loro intenti
di sottomissione non erano diversi da quelli di questi.
Brano tratto dal libro “Verso quale approdo?” Di Giuseppe
Piroddi
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