giovedì 30 maggio 2019

La caduta dei regimi Comunisti



Nel lontano 1989 tutti i regimi comunisti dell’Europa orientale crollarono tra l’agosto ed il dicembre come castelli di carta per un minimo soffio di brezza. L’unico tra quei regimi che resisteva era l’Unione Sovietica, tuttavia agonizzante fin da quando Gorbaciov, ponendo in atto la Perestrojka, ne aveva diagnosticato ma non decretato (come qualcuno potrebbe essere indotto a pensare essendo stato Lui medesimo a causarla) la morte.

Il regime comunista sovietico si dissolverà di fatto nel 1991, sopravvivendo meno di due anni all’ultimo regime dell’Europa orientale, ovvero quello rumeno. Tutti sapevamo dei conflitti interni che vi sussistevano, del malessere che vi serpeggiava, della crisi interna che li minava, della grande voglia di cambiamento che animava le loro popolazioni, ma nessuno si aspettava un loro crollo così rapido giacché, pur intravedendosi alcune incrinature, non risultava trasparente il logorio dei puntelli che li sostenevano.

Per quanto ci riguarda, è logico affermare che la loro caduta così rapida ci provocò un sommo sconcerto, non tanto perché ne ignorassimo i grossi difetti e le possibili cause che ne avrebbero determinato la rovina, ma perché avevamo riposto in essi una specie di contrappeso ai mali che allignavano, e che tuttora allignano, nelle democrazie occidentali.

Questi regimi, infatti, erano una forza che garantivano i Paesi del Terzo mondo dall’invadenza poco scrupolosa dei loro ex colonizzatori occidentali. In realtà sapevamo benissimo che l’Unione Sovietica ed i suoi satelliti operavano nei Paesi sottosviluppati per assicurarsi un’influenza in contrapposizione ai Paesi industrializzati dell’Occidente, e che i loro intenti di sottomissione non erano diversi da quelli di questi.

Brano tratto dal libro “Verso quale approdo?” Di Giuseppe Piroddi

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Quarta di copertina dell'opera "Verso quale Approdo", del professor Giuseppe Piroddi

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